Le Collezioni in pillole

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Con i musei chiusi per l’emergenza Coronavirus, il Sistema Museale di Ateneo diventa virtuale, ovvero SMArt, proponendo nuovi contenuti digitali per accompagnare la scoperta dei propri musei, attraverso approfondimenti multimediali. Ecco i vari progetti delle Collezioni Egittologiche e i contenuti già disponibili.

Diario di Bordo

Sulla pagina Facebook del Sistema Museale di Ateneo stiamo pubblicando il nostro Diaro di bordo, con piccoli contributi quotidiani su tutti i musei.

  • Specchio in bronzo dorato
    Questo bellissimo specchio in bronzo ageminato d’oro, di elettro (una lega di oro e argento) e di rame è stato rinvenuto all’interno della tomba T22 della necropoli del Nuovo Regno a Soleb, in Sudan ed è uno dei pezzi più preziosi della nostra collezione.
  • L’occhio di Horus e il dio Bes
    Le sei placchette circolari in faience azzurra furono acquistate nel 1988 sul mercato antiquario e donate nel 1991 alle Collezioni Egittologiche. Ciascuna di esse reca su una faccia la testa del dio Bes, sull’altra l’occhio di Horus, entrambi simboli dotati di una forte valenza protettiva.
  • Statua in bronzo e foglia d’oro dalla tomba WT9 di Sedeinga, Epoca Meroitica (III d.C.).
    Osiride è raffigurato come un uomo mummificato con le braccia incrociate sul petto nell’atto di reggere lo scettro e il flagello simboli del potere regale. Sul capo porta la corona bianca fiancheggiata da due piume di struzzo e spesso sormontata da un disco solare, nel quale la corona è decorata al centro da un serpente.
  • Michela Beomonte Schiff Giorgini: una vita dedicata all’archeologia Michela non era un’archeologa di professione ma la sua forte passione per la cultura faraonica la condusse nella Nubia sudanese ove a partire dal 1957, e per i vent’anni successivi, si dedicò all’esplorazione dei siti di Soleb e Sedeinga scavando sotto il patrocinio dell’Università di Pisa.
  • Disegni e tavole dall’Egitto, splendide riproduzioni sotto la guida di Ippolito Rosellini Una delle imprese più importanti fra quelle portate a compimento da Ippolito Rosellini al rientro dalla spedizione franco-toscana fu senza dubbio la pubblicazione dei “Monumenti dell’Egitto e della Nubia”
  • Piccoli coccodrilli come reliquia Nel 1999 fu individuato un edificio con vasca quadrata e furono trovate più di trenta uova di coccodrillo sepolte nella sabbia, alcune contenenti feti in vari stadi d’evoluzione.
  • I vetri bizantini da Medinet Madi Nel 1988, a Medinet Madi nell’oasi del Fayum nel corso delle indagini archeologiche condotte dall’Università di Pisa, furono recuperati numerosi frammenti di vetro.
  • Un ritratto del faraone Amenofi III è uno dei faraoni di cui conosciamo maggiormente l’aspetto, grazie al gran numero delle sculture rinvenute che ritraggono il sovrano nelle diverse fasi della sua vita e del suo regno.
  • La pesatura del cuore Fra i tanti amuleti che accompagnavano il defunto nella tomba uno aveva vitale importanza: lo scarabeo del cuore, generalmente collocato al di sopra delle bende della mummia o fra le bende in corrispondenza del cuore.
  • Il decifratore di geroglifici Nella seconda sala del museo è conservato il ritratto in costume orientale del decifratore dei geroglifici J.F. Champollion, realizzato dal pittore emiliano Ubaldo Umiltà nella seconda metà dell’Ottocento.
  • L’importanza del colore azzurro nella maschera per il defunto La maschera è parte di una originaria reticella fatta di perline tubolari in faience intrecciate in modo da formare una rete che gli antichi Egizi usavano adagiare sulle bende della mummia.
  • Kenamun, l’undicesima mummia – prima pillola. Kenamun visse al tempo del faraone Amenofi II (Nuovo Regno, XVIII Dinastia – XV sec. a.C. ca.). del quale fu fratello di latte. La madre di Kenamun fu infatti una dama di corte che ebbe l’onore di fare da nutrice al faraone.
  • Kenamun, l’undicesima mummia – seconda pillola. Il sarcofago e la mummia ormai scheletrizzata furono portati in Italia, insieme ad altri dieci sarcofagi e alle loro mummie, da Ippolito Rosellini al termine della spedizione congiunta franco-toscana in Egitto e Sudan del 1828-29.
  • La collezione Picozzi. Nel corso degli anni la collezione passò in eredità ai discendenti della famiglia Rosellini. Furono infine i figli di Laura Birga Picozzi, nipote di Gaetano Rosellini, a donarla all’Università di Pisa nel 1962 esaudendo le ultime volontà della madre.
  • I depositi di fondazione, garanzia di eterna sopravvivenza. Un deposito di fondazione è generalmente costituito da un gruppo di beni quali cibo, placchette, vasetti, perle, utensili e attrezzi da costruzione che venivano sepolti nel corso di particolari cerimonie rituali sotto le fondamenta di edifici.

 

Contributi

Specchio in bronzo dorato

Questo bellissimo specchio in bronzo ageminato d’oro, di elettro (una lega di oro e argento) e di rame è stato rinvenuto all’interno della tomba T22 della necropoli del Nuovo Regno a Soleb, in Sudan ed è uno dei pezzi più preziosi della nostra collezione datato al XIV sec. a.C.
Fa parte della Collezione Schiff Giorgini, donata nel 1964, che comprende circa 400 oggetti, alcuni di eccezionale valore, provenienti dagli scavi condotti da Michela Schiff Giorgini in Sudan sotto il patrocinio dell’Università di Pisa.
La forma discoidale e i due fiori di loto a tutto tondo alla base denotano la forte valenza simbolica legata a questo oggetto: il fiore di loto blu era infatti associato dagli antichi Egizi ai concetti di rinascita e rigenerazione per il suo ciclico schiudersi al mattino e richiudersi alla sera, al pari del sole che sorge e tramonta ogni giorno.
La forma a disco rievoca il sole e il dio Ra, divinità solare e creatrice per eccellenza

 

 

L’occhio di Horus e il dio Bes

La faience era un materiale diffusamente adoperato nell’antico Egitto per la realizzazione di gioielli, amuleti, statuine funerarie, contenitori e altri elementi del corredo.
Essa era composta prevalentemente di sabbia silicea e ossido di calcio a cui si aggiungevano minerali come rame, cobalto, manganese e composti ferrosi che determinavano la formazione di uno strato vetroso in superficie, donando brillantezza all’oggetto in questione.

Vi erano diverse tonalità di faience ma quella più diffusa era il l’azzurro-verde, simile al turchese.

Le sei placchette circolari in faience azzurra furono acquistate nel 1988 sul mercato antiquario e donate nel 1991 alle Collezioni Egittologiche. Ciascuna di esse reca su una faccia la testa del dio Bes, sull’altra l’occhio di Horus, entrambi simboli dotati di una forte valenza protettiva.

Bes era una delle divinità minori più importanti della religione egizia: dio legato alla sfera familiare, protettore della casa e della famiglia, assisteva le partorienti e proteggeva i neonati ma era anche associato alla sfera del divertimento e considerato patrono delle danzatrici.
Era inoltre in grado di scacciare il malocchio e gli spiriti maligni che venivano scongiurati dal suo temibile aspetto. Egli veniva infatti raffigurato come un nano vecchio e barbuto con gambe storte, coda e orecchie leonine, lingua sporgente e capo ornato di piume di struzzo, ed era spesso dotato di strumenti musicali o armi con cui scacciava le forze malvagie.

 

Statua in bronzo e foglia d’oro dalla tomba WT9 di Sedeinga, Epoca Meroitica (III d.C.).

Secondo uno dei miti più celebri della religione egizia, in un’epoca remota nella quale gli dei regnavano sull’Egitto, il dio Osiri successe al padre Geb e regnò portando la civiltà e l’agricoltura agli uomini.
Il fratello Seth, che aspirava al trono, uccise Osiri con uno stratagemma e ne smembrò il corpo, in seguito ricomposto e magicamente rianimato da Iside, sposa-sorella del dio.
Dall’unione di Iside e Osiride sarebbe nato Horus, che avrebbe vendicato l’uccisione del padre sconfiggendo lo zio Seth e succedendo al trono d’Egitto. In seguito a questi eventi Osiride fu venerato come sovrano dell’oltretomba.
Per questo, nella sua iconografia più classica, egli è raffigurato come un uomo mummificato con le braccia incrociate sul petto nell’atto di reggere lo scettro e il flagello simboli del potere regale. Sul capo porta la corona bianca fiancheggiata da due piume di struzzo e spesso sormontata da un disco solare, come potete vedere anche su questo esemplare, nel quale fra l’altro la corona è decorata al centro da un serpente.
Il viso della statuina è ricoperto da una spessa foglia d’oro perché, secondo l’antica credenza religiosa, la carne degli dei era d’oro e i capelli erano di lapislazzuli.

 

 

 

 

Michela Beomonte Schiff Giorgini: una vita dedicata all’archeologia

Michela Beomonte Schiff Giorgini (1923-1978), fu un’illustre archeologa, divulgatrice e generosa mecenate, moglie di Giorgio Schiff Giorgini, banchiere franco-toscano appartenente ad una nobile famiglia pisana.

Michela non era un’archeologa di professione ma la sua forte passione per la cultura faraonica la condusse nella Nubia sudanese ove a partire dal 1957, e per i vent’anni successivi, si dedicò all’esplorazione dei siti di Soleb e Sedeinga scavando sotto il patrocinio dell’Università di Pisa.
Qui sorgevano due splendidi templi costruiti nel corso della XVIII Dinastia per volere del faraone Amenofi III: a Soleb infatti il sovrano fece edificare l’imponente tempio giubilare che dedicò a se stesso divinizzato e al dio Amon, mentre a Sedeinga (a circa 15 km a nord di Soleb) sorgeva il complesso dedicato alla dea Hathor e alla sposa reale, la regina Tii.

A Michela Schiff Giorgini si deve inoltre lo studio delle necropoli del Nuovo Regno e di Epoca Meroitica (III sec. a.C.- III d.C.) sorte a breve distanza dai templi ove, fra l’altro, trovarono sepoltura coloro che avevano contribuito alla loro costruzione e amministrazione.
Da queste sepolture e dall’area dei templi provengono i reperti di grande pregio che Michela Schiff Giorgini donò all’Università di Pisa nel 1964, che ella aveva a sua volta ricevuto dal governo del Sudan in qualità di direttrice della missione. La restante parte dei reperti recuperati nel corso degli scavi è invece attualmente esposta al museo di Khartum.
Per il suo importante contributo alla conoscenza dell’Egitto di provincia e per l’impegno e la passione con la quale per vent’anni si dedicò allo studio di questi siti Michela Schiff Giorgini ottenne numerosi riconoscimenti, fra i quali la laurea Honoris Causa in Lettere e Filosofia che l’ateneo pisano gli conferì il 16 ottobre 1971 e, nello stesso anno, l’onorificenza di Cavaliere nell’Ordine della “Palmes acadèmiques” a Parigi. Ritiratasi in Spagna muore il 3 luglio del 1978 di meningite all’età di 55 anni.

 

Disegni e tavole dall’Egitto, splendide riproduzioni sotto la guida di Ippolito Rosellini

Una delle imprese più importanti fra quelle portate a compimento da Ippolito Rosellini al rientro dalla spedizione franco-toscana fu senza dubbio la pubblicazione dei “Monumenti dell’Egitto e della Nubia”.
Questa opera monumentale in nove volumi iniziata nel 1823, tutti corredati di tavole, aveva lo scopo di documentare i luoghi e i monumenti dell’Egitto visitati in buona parte dallo stesso Ippolito Rosellini durante il suo soggiorno in Egitto.
Le splendide tavole ad acquerello che si trovano in quest’opera sono fedeli riproduzioni che i disegnatori della spedizione avevano eseguito visitando templi e tombe d’Egitto.
La tavola nella foto raffigura una scena tratta da una delle tombe di Beni Hasan, nel Medio Egitto, in cui si vede una barca che sta riconducendo una signora di nome Khety e le donne dell’harem sedute all’interno di una cabina.

Piccoli coccodrilli come reliquia

L’oasi del Fayum fu uno dei principali centri di culto del dio coccodrillo Sobek e in suo onore vennero eretti numerosi edifici templari.
Anche il sito di Medinet Madi ospitò un tempio dedicato al dio coccodrillo e alla dea cobra Renenut, protettrice delle messi e della fortuna. La costruzione del tempio iniziò nel Medio Regno sotto il faraone Amenemhat III e fu completata dal suo successore Amenemhat IV. Esso fu poi inglobato negli ampliamenti databili all’epoca tolemaica: durante questa fase vennero infatti aggiunti tre cortili, un vestibolo e un altro tempio sul lato nord.
Nel corso della missione di scavo del 1998 condotta dall’Università di Pisa in congiunzione con l’Università di Messina, furono portati alla luce i resti di un ulteriore edificio templare di epoca tolemaica, denominato “Tempio C”: costruito in mattoni crudi e blocchi di calcare, il tempio era dedicato a due divinità coccodrillo.
Proprio qui nel 1999 fu individuato un edificio con vasca quadrata e furono trovate più di trenta uova di coccodrillo sepolte nella sabbia, alcune contenenti feti in vari stadi d’evoluzione.
Questa scoperta ha portato gli archeologi a ipotizzare che l’edificio fungesse da nursery per i piccoli coccodrilli sacri che, una volta schiuse le uova, venivano messi all’interno della vasca, per poi essere sacrificati, mummificati e venduti ai pellegrini in visita al tempio che li offrivano come reliquie.

 

I vetri bizantini da Medinet Madi

Nel 1988, a Medinet Madi nell’oasi del Fayum nel corso delle indagini archeologiche condotte dall’Università di Pisa, furono recuperati numerosi frammenti di vetro.
Questo materiale, rinvenuto all’interno della Chiesa G di epoca bizantina (IV-V secolo d.C), fu sottoposto ad un lungo lavoro di restauro che ha permesso di ricomporre i frammenti in vari contenitori di diversa forma e dimensione utilizzati in buona parte come lampade ad olio per l’illuminazione degli ambienti ecclesiastici.
Insieme ai frammenti vitrei furono infatti rinvenuti otto portastoppini conici in argilla con foro longitudinale, ove veniva inserito lo stoppino intriso nell’olio. Il portastoppino veniva poi collocato all’interno della lucerna in vetro riempita di acqua in modo che galleggiasse al suo interno.

 

 

 

Un ritratto del faraone

Amenofi III è uno dei faraoni di cui conosciamo maggiormente l’aspetto, grazie al gran numero delle sculture rinvenute che ritraggono il sovrano nelle diverse fasi della sua vita e del suo regno. Quasi come una fotografia anche questo blocco scolpito a bassorilievo ci permette di immaginare quale dovesse essere la sua fisionomia. Il blocco in arenaria di Nubia proviene dal tempio di Soleb (Nuovo Regno, XIV sec. a.C.), sebbene fosse già stato impiegato nel piccolo santuario per la barca processionale del dio Amon che andò a costituire il nucleo più antico del tempio. Amenofi III accenna un sorriso, elemento tipico della ritrattistica di questo sovrano, e indossa la corona blu dell’incoronazione chiamata “khepersc” ornata al centro da un urèo, il serpente simbolo di regalità, e da due nastri pendenti posteriormente. A confermarci l’identità del personaggio raffigurato sono i segni geroglifici che potete vedere a sinistra della figura i quali riportano, seppur in parte, la titolatura del faraone Amenofi III.

 

 

La pesatura del cuore

Fra i tanti amuleti che accompagnavano il defunto nella tomba uno aveva vitale importanza: lo scarabeo del cuore, generalmente collocato al di sopra delle bende della mummia o fra le bende in corrispondenza del cuore. Infatti, secondo quanto descritto dal Libro dei Morti, prima di poter raggiungere l’aldilà era necessario che ogni individuo superasse positivamente la cosiddetta “psicostasia” o “pesatura del cuore”: il defunto era condotto dal dio Anubi dinanzi al tribunale dei quarantadue dei presieduto dal dio Osiride ed è qui che il suo cuore veniva posto su uno dei piatti della bilancia, mentre l’altro era occupato dalla piuma simbolo della dea Maat, incarnazione dei concetti di giustizia e verità. Se il cuore risultava essere più pesante della piuma, sintomo di una cattiva condotta durante la vita, al defunto veniva precluso l’accesso nell’aldilà e il suo destino era quello di essere divorato dalla dea Ammit detta anche la “Grande Divoratrice”, un essere mostruoso dalla testa di coccodrillo e dal corpo per metà di leone e per metà di ippopotamo. Gli Egizi credevano quindi che il cuore e non il cervello fosse la sede del ricordo e della memoria, motivo per cui introdussero questo particolare amuleto recante un’iscrizione sulla base in cui veniva riportato il capitolo 30b del Libro dei Morti, una vera e propria preghiera del defunto che si rivolge al cuore chiedendogli di testimoniare in suo favore e di aiutarlo a superare il giudizio del tribunale divino.

Nella foto: Scarabeo del cuore di Maakhw, Necropoli di Soleb, Nuovo Regno (XIV sec. a.C.).

 

Il decifratore di geroglifici

Nella seconda sala del museo è conservato il ritratto in costume orientale del decifratore dei geroglifici J.F. Champollion, realizzato dal pittore emiliano Ubaldo Umiltà nella seconda metà dell’Ottocento.

Si tratta di una copia ingrandita ad acquerello di un originale ad olio su tavola che nel 1829 il medico senese Alessandro Ricci, che prese parte alla spedizione franco-toscana in Egitto e Nubia per le sue non indifferenti doti di disegnatore, eseguì poco prima di imbarcarsi ad Alessandria per far rientro in Italia.

L’originale ad olio doveva quindi trovarsi a Pisa, presumibilmente presso la famiglia Rosellini, quando Ubaldo Umiltà fece la copia che state ammirando, includendovi una doppia e affettuosa dedica a Laura Rosellini, figlia di Gaetano Rosellini e madre di quella Laura Birga Picozzi che nel 1962 volle lasciare la collezione in eredità all’ateneo pisano.

 

 

L’importanza del colore azzurro nella maschera per il defunto

La maschera è parte di una originaria reticella fatta di perline tubolari in faience intrecciate in modo da formare una rete che gli antichi Egizi usavano adagiare sulle bende della mummia.

La maschera veniva posta in corrispondenza del viso del defunto mentre la reticella ricopriva il corpo del defunto fino alle caviglie. Il colore azzurro non era casuale ma aveva una forte valenza simbolica.

Secondo le antiche credenze funerarie egizie, ciascun individuo dopo la morte veniva associato al dio Osiride, sovrano dell’oltretomba, nella speranza di risorgere così come era accaduto a lui. Il colore azzurro delle perline richiamava il cielo e con esso la dea Nut, dea celeste e madre dello stesso Osiride.

La dea Nut simbolicamente rappresentata dalla reticella proteggeva quindi il defunto all’interno del suo sarcofago per l’eternità.

 

 

 

 

Kenamun, l’undicesima mummia – prima pillola

Kenamun visse al tempo del faraone Amenofi II (Nuovo Regno, XVIII Dinastia – XV sec. a.C. ca.).

del quale fu fratello di latte. La madre di Kenamun fu infatti una dama di corte che ebbe l’onore di fare da nutrice al faraone. Per questo intimo legame fraterno una volta diventato adulto Kenamun fu rivestito di cariche importantissime, come quella di Maggiordomo del Re, e gestì per conto del sovrano il centro portuale di Perunefer, nel Delta del Nilo.

La sua storia non ebbe però un lieto fine: a un certo punto della sua vita Kenamun cadde in disgrazia, come ci raccontano i segni di una damnatio memoriae presenti nella sua tomba a Tebe, dove il suo nome e i suoi titoli vennero accuratamente cancellati per condannarlo all’oblio, una pratica riservata a coloro che si erano macchiati di pesanti crimini verso lo stato e il faraone. Per questi motivi Kenamun ebbe sì una sepoltura degna, ma non all’altezza di ciò che ci si sarebbe aspettati per un personaggio di alto rango come lui, e lo stesso si può dire del suo sarcofago. (Continua…)

 

Kenamun, l’undicesima mummia – seconda pillola

Kenamun visse al tempo del faraone Amenofi II (Nuovo Regno, XVIII Dinastia – XV sec. a.C. ca.).
Le vicende intricate legate a questo personaggio proseguono tuttavia fino ai giorni nostri.  Il sarcofago e la mummia ormai scheletrizzata furono portati in Italia, insieme ad altri dieci sarcofagi e alle loro mummie, da Ippolito Rosellini al termine della spedizione congiunta franco-toscana in Egitto e Sudan del 1828-29. La nave Cleopatra che nel 1829 aveva trasportato da Alessandria d’Egitto al porto di Livorno le antichità egiziane raccolte nel corso della spedizione subì sfortunatamente un’avaria, imbarcò acqua e una parte dei reperti fu danneggiata. Fra questi vi erano anche il sarcofago e la mummia che da questo momento in poi subirono due sorti differenti: il sarcofago infatti fu portato a Firenze ove rimase a lungo dimenticato mentre la mummia, ormai in avanzato stato di decomposizione, fu donata dal Rosellini all’allora direttore del Museo di Storia Naturale, e suo amico, Paolo Savi.

Svelato il mistero della mummia che fu rinvenuta e identificata nel 2012 al Museo di Storia Naturale di Calci, restava da individuare il sarcofago che fu rintracciato, privo del coperchio e in pessimo stato di conservazione, nei magazzini del Museo Egizio di Firenze. I geroglifici presenti su di esso svelarono l’identità del suo antico occupante: si trattava di Kenamun.

Il mistero dell’undicesima mummia in una mostra a Calci

 

 

La collezione Picozzi

Provate ad immaginare il salotto di una dimora ottocentesca e collocate idealmente questo mobile al suo interno. Ebbene questa vetrina, dall’aspetto che richiama gli elementi architettonici di un antico tempio egizio, fu fatta appositamente realizzare dai Rosellini al rientro dalla spedizione scientifica in Egitto e Nubia del 1828-29 per esporvi gli oggetti che vedete distribuiti su mensole quasi tutte estraibili, un fatto che permetteva agli ospiti curiosi di osservare da vicino i reperti archeologici che erano con tutta probabilità stati acquistati in Egitto sul mercato antiquario. Oltre a questi vi erano anche gli oggetti portati a ricordo di quel memorabile viaggio, come i sette vasetti collocati nella vetrinetta in alto a forma di obelisco contenenti la sabbia raccolta in varie località d’Egitto o le numerose collane e il gonnellino indossati dalle popolazioni indigene del Sudan all’epoca della spedizione, a testimonianza dell’interesse che gli studiosi nutrirono per il modo di vivere e per le abitudini delle popolazioni autoctone.

Nel corso degli anni la collezione passò in eredità ai discendenti della famiglia Rosellini. Furono infine i figli di Laura Birga Picozzi, nipote di Gaetano Rosellini, a donarla all’Università di Pisa nel 1962 esaudendo le ultime volontà della madre.

 

 

 

I depositi di fondazione, garanzia di  eterna sopravvivenza

I quattordici utensili in bronzo furono acquistati nel 2001 sul mercato antiquario e donati all’Università di Pisa dalla signora Monica Benvenuti di Livorno.

Si tratta di oggetti provenienti da depositi di fondazione della regina Hatshepsut e del suo figliastro, il faraone Thutmosi III (XVIII Dinastia).

Ma cosa si intende per deposito di fondazione?

Un deposito di fondazione è generalmente costituito da un gruppo di beni quali cibo, placchette, vasetti, perle, utensili e attrezzi da costruzione che venivano sepolti nel corso di particolari cerimonie rituali sotto le fondamenta di edifici – soprattutto templi ma anche palazzi, tombe regali e private, fortezze – per garantire la sopravvivenza eterna degli edifici e di chi li aveva fondati ovvero il faraone, un fatto che spiega la presenza del nome del sovrano su molti di essi.

Nel caso degli utensili in bronzo si ricorreva molto spesso a dei modelli in scala ridotta degli oggetti reali, posti nei depositi con funzione puramente simbolica, in altri casi invece erano gli attrezzi effettivamente adoperati per la costruzione degli edifici a essere posti fra gli oggetti del deposito.